Ho scritto il post qui sotto riportato dopo aver letto il contributo del Prof. Francesco Ferrante pubblicato il 24 giugno scorso sul sito web lavoce.info e che potete leggere nella sezione "Argomenti" "Scuola e Università" del sito . Lavoceinfo ha pubblicato il mio commento, seppur in versione leggermente ridotta (5.000 battute spazi inclusi max ......). Qui sotto trovate la versione originaledel mio commento
L’insostenibile
leggerezza dell’Università (in parziale confutazione di “Ma l’università non
deve insegnare un lavoro” di Francesco Ferrante).
Quale deve essere il ruolo
dell’Università? Se mi è consentita la semplificazione, la tesi esposta dal
Prof. Francesco Ferrante è che l’Università dovrebbe “fornire competenze
generali, e, solo parzialmente, professionalizzanti”. Il compito di “insegnare
un lavoro” spetterebbe invece ad altri, le imprese, i datori di lavoro, la
collettività, insomma al variegato universo in cui oggi, appena usciti
all’Università, si trovano spesso a vagare i neolaureati in cerca di un lavoro.
Ciò in quanto, considerata la accresciuta “velocità” dei mutamenti tecnologici
e sociali che caratterizzano il mondo attuale, percorsi formativi troppo
professionalizzanti correrebbero il rischio di divenire rapidamente obsoleti, e
quindi del tutto inutili per lo scopo a cui essi pure dovrebbero dichiaratamente
essere destinati, per l’appunto la “professionalizzazione” degli studenti.
La tesi si presta ad alcuni
commenti. In primo luogo occorre osservare che, se adottata in maniera
acritica, essa potrebbe essere strumentalmente utilizzata per offrire una
giustificazione ideologica a quello che tradizionalmente è stato forse il
maggior difetto di una parte del mondo accademico, italiano e non solo, quello
della autoreferenzialità.
A ciò si aggiunga che nell’interrogarci
sul ruolo dell’Università, dovremmo anche tener conto degli interessi di tutti
gli stakeholders coinvolti, quelli
delle imprese e, ancor prima, quelli dei giovani che si accingono ad
intraprendere un percorso universitario. Gli aspiranti universitari
probabilmente rimarrebbero quantomeno perplessi nel sentirsi dire platealmente ed
esplicitamente che “no, l’Università non deve fornirti delle competenze professionalizzanti
(i.e. “non ti insegna un lavoro”), quelli sono problemi di qualcun altro”. E
per la verità non è certo questo il messaggio che ritroviamo sui siti di molte
Università che anzi, per porre rimedio al calo degli iscritti, spesso pongono
al centro della loro comunicazione promozionale proprio il job-placement post-laurea
e le future prospettive di lavoro, sottolineando con malcelata soddisfazione,
quando per loro possibile, l’alta percentuale di neolaureati che trovano un
lavoro appena usciti dall’Università. Il senso del messaggio, promozionale
quanto si vuole, e quindi con tutti i limiti dell’advertising, non è tanto fondato sull’Università che fornisce
“competenze generali”, e che potrebbe quindi essere percepita come altra
rispetto al mondo del lavoro, quanto piuttosto sull’idea che l’Università possa
e debba rappresentare per i neolaureati un momento di collegamento con le
imprese e con il mondo del lavoro.
Fatte queste premesse è del tutto
ovvio che l’Università non possa fondare la propria didattica sui bisogni
immediati delle imprese, o proprie sulle volubili mode del momento contingente e
non vi è dubbio che sia opportuno tener ben presente l’aumentato tasso di
obsolescenza delle competenze professionalizzanti, anche se per la verità tale
argomento sembra meglio attagliarsi alle facoltà tecniche e meno a quelle
umanistiche. Per certi versi appare infatti
riduttivo parlare genericamente di “Università” in quanto per una valutazione
più approfondita dell’adeguatezza della didattica sarebbe necessario verificare
la situazione delle singole facoltà (o addirittura delle singole sedi
Universitarie).
Di poi il mondo Universitario
dovrebbe quantomeno anche interrogarsi se un’analoga obsolescenza non possa
essere attribuita ad alcune delle “competenze generali”, da ripensare e rimodellare
proprio in funzione dei sempre più rapidi mutamenti tecnologici e sociali del
mondo in cui viviamo, così da far spazio a competenze professionalizzati o
anche soltanto a “competenze generali”, nuove e diverse, rispetto a quelle
tradizionali.
Considerato che la mia carriera
professionale si è svolta al di fuori dell’Università, non posso che limitare i
miei commenti di mero stakeholder al
gruppo disciplinare e professionale a cui appartengo, quello giuridico. Lo farò con un esempio di un fatto realmente
accadutomi. Avuto l’opportunità di incontrare un gruppo di universitari, alcuni
dei quali in procinto di laurearsi, mi resi conto che poco o nulla sapevano in
tema di ristrutturazioni d’impresa, concordati in continuità e simili, che,
sfortunatamente, negli ultimi anni hanno assunto una importanza rilevante nella
nostra professione.
Alle mie cortesi rimostranze, gli universitari mi spiegarono
che nella loro facoltà tali questioni erano riservate ad un mero esame
complementare (a fronte di ben quattro esami obbligatori dedicati al Diritto
Romano). Sebbene io sia un certo assertore dell’opportunità dello studio del
Diritto Romano, in allora mi sono comunque domandato se non fosse opportuno
trovare un qualche riequilibrio nella didattica di quella Facoltà, che
consentisse un qualche maggior spazio a delle competenze, anch'esse generali,
almeno a mio parere, ma più immediatamente spendibili nel mondo in cui
inevitabilmente gli universitari, dopo essersi laureati, dovranno cercare un
primo lavoro.
In conclusione, quale che sia
l’opinione in merito a che cosa debba insegnare l’Università, ritengo che essa non
possa limitarsi a cristallizzare e tramandare la didattica da sempre offerta,
ma debba invece tentare di valutarla e se del caso modificarla in funzione dei
mutamenti nel frattempo intervenuti nel “mondo di fuori”. E se così facendo ci
scappa qualche “competenza professionalizzante” probabilmente gli stakeholders, universitari compresi, ne
saranno soltanto contenti ………………….
© marco bianchi – agosto 2017 riproduzione riservata
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